Con la pronuncia n. 27133 del 14 Settembre 2022, la Suprema Corte di Cassazione torna a pronunciarsi sugli effetti derivanti dalla risoluzione del contratto di leasing avvenuta prima della dichiarazione di fallimento dell’utilizzatore statuendo, sembrerebbe definitivamente, ed in linea con un orientamento precedente (SS.UU. 2061/2021), l’applicazione analogica dell’art. 1526 cc a fronte di quella corrente giurisprudenziale e dottrinale che ancora optava per l’art. 72 quater della L. Fallimentare.
Con questa ordinanza la Suprema Corte ribadisce che, in tema di Leasing traslativo – volto all’alienazione del bene mobile ovvero immobile – nel caso in cui, dopo la risoluzione del contratto per inadempimento dell’utilizzatore, intervenga il fallimento dello stesso, il concedente che, in rispetto dell’art. 1526 cc, intenda far valere il proprio credito risarcitorio derivante dalla clausola penale di risoluzione stipulata a suo favore, dovrà necessariamente proporre apposita insinuazione al passivo fallimentare ex art. 93 LF indicando e dimostrando la diversa somma ricavata dalla nuova allocazione del bene ovvero, in mancanza, allegare una stima veritiera ed attendibile del valore attuale del bene di cui al contratto risolto per inadempienza.
La vicenda trae origine da una pronuncia emessa dal Tribunale di Lamezia Terme con la quale veniva accolta l’opposizione allo stato passivo promossa da una società di Leasing e Factoring con riguardo ad una domanda di ammissione al passivo avente ad oggetto i canoni insoluti e scaduti relativamente ad un leasing immobiliare, risoltosi prima della dichiarazione di fallimento, avente ad oggetto un capannone industriale, del quale, comunque, veniva richiesta la restituzione.
I Giudici di legittimità dichiarano i motivi del controricorso fondati asserendo, e come già detto allineandosi alla pronuncia delle SS.UU., che la ratio dell’appicazione analogica dell’art. 1.526 cc risieda nell’esigenza di <<porre un limite al dispiegarsi dell’autonomia privata>> nel caso di leasing traslativo, al fine di evitare l’ingiustificato arricchimento che si verifica nella prassi commerciale a favore del concedente, il quale, ottiene sia la restituzione del bene che l’acquisizione delle rate riscosse oltre all’eventuale risarcimento del danno ossia più di quanto avrebbe avuto diritto in caso di regolare decorso del contratto di Leasing.
La pronuncia della Suprema Corte, la quale risolve definitivamente la vexata quaestio relativa al leasing in ambito fallimentare, baserebbe il suo presupposto proprio sull’equità che caratterizza la procedura concorsuale e sul principio cardine di cui all’art. 1.284 c.c. che mal concilierebbe una diversa interpretazione della normativa vigente che troppo sarebbe vantaggiosa per uno specifico creditore quale, appunto, il concessore del contratto di Leasing che, ove venisse ad applicarsi il 72-quater della LF potrebbe, non solo conservare la titolarità del bene, e disporlo come meglio crede, ma anche andare trattenere quanto già incamerato per le locazioni mensili oltre a richiedere in sede fallimentare quanto disposto dalla clausola penale apposta a proprio favore.
In definitiva, viene a trovare prima applicazione la pronuncia della Cass. SS.UU. n. 26531/2021 ove veniva reputata “manifestatamente eccessiva la penale che, mantenendo in capo al concedente la proprietà del bene, gli consente di acquisire i canoni maturati fino al momento della risoluzione, ciò comportando un indebito vantaggio derivante dal cumulo della somma dei canoni e del residuo valore del bene”.